I dilemmi della sinistra moderata/Una proposta: imparare dai laburisti inglesi Se il Partito democratico va a lezione da Blair di Italico Santoro E adesso, che fare? Dopo che al velo opaco dei sondaggi preelettorali si sono sostituite le aride certezze dei risultati postelettorali, si è materializzato per la sinistra moderata italiana quello che Michele Salvati aveva definito, all'indomani della nascita del Partito democratico, il "rompicapo dei riformisti". "Una sinistra liberale e di governo - aveva scritto Salvati - non può vivere (vincere) né con la sinistra radicale, né senza di essa"; riecheggiando, su un terreno diverso, il "nec tecum nec sine te vivere possum" del poeta latino Catullo. In realtà, la situazione è ancora più grave. La percentuale di voti che in nessun caso può essere attribuita alla sinistra, per quanto liberale e riformista, sfiora il 60%, alla Camera come al Senato. Il che vale a dire che nessuna alleanza, neanche la più improbabile, sarebbe servita per assicurare al centrosinistra la vittoria elettorale. All'origine di una sconfitta storica sono i molti errori compiuti in questi ultimi due anni e che possono essere ricondotti all'esperienza del governo Prodi, alla sua composita maggioranza ed alla sua leadership politica. Il primo errore - dal quale gli altri sono derivati - è stato quello di scambiare per vittoria uno stentato pareggio. Invece di cercare - come il risultato delle elezioni del 2006 avrebbe suggerito - un dialogo con l'opposizione, il centrosinistra si è rinchiuso nel suo fortilizio e si è preparato a fronteggiare l'assalto. Una strategia che poteva avere successo solo ad una duplice condizione: in primo luogo, l'esistenza di una maggioranza coesa; in secondo luogo, un'intesa ferrea intorno ad un programma chiaro, ben definito ed a sua volta pienamente condiviso. Condizioni che, come la storia recente si è incaricata di dimostrare, erano ben lungi dall'esistere. Il secondo errore - che del primo è stretta conseguenza - si riassume proprio nella disastrosa esperienza del governo di centrosinistra. Privo di una bussola, del tutto lontano dai reali problemi del paese, Prodi si è trascinato in una estenuante mediazione di vertice tra una sinistra radicale riottosa ed una sinistra moderata insofferente. Con il risultato evidente di scontentare tutti. E ha poco senso ripetere - come molti esponenti del Pd, soprattutto tra gli ex ministri, stanno facendo ancora in queste ore - che il governo Prodi aveva condotto a termine l'opera di risanamento dei conti, prima fase della sua stagione politica, e si apprestava a premere il piede sull'acceleratore della crescita quando è stata staccata la spina. L'idea dei "due tempi" è un'invenzione a posteriori, fatta per giustificare un naufragio che i risultati elettorali si sono incaricati di certificare. Che aveva a che fare con questa strategia - per fare solo un esempio - una modifica della legge Maroni sulla previdenza, destinata a peggiorare e non certo a migliorare i conti pubblici, impegnando risorse che potevano essere invece destinate ad alleggerire il carico fiscale? O ancora la distribuzione in mille rivoli di un "tesoretto" creato dalla favorevole congiuntura economica internazionale e che si sarebbe potuto utilizzare per ridurre il debito, visto che obiettivo prioritario del governo era proprio quello di intervenire in modo virtuoso sulla finanza pubblica? Poi sono sopravvenuti gli errori, per così dire, collaterali. Il dramma dei rifiuti in Campania, che ha segnato il fallimento di un'esperienza di governo locale durata quindici anni; e ha chiuso in modo disastroso una stagione politica che si era aperta, anche con qualche ingenuità e superficialità, tra gli entusiasmi e le speranze. L'accelerazione della crisi di governo ed elezioni troppo ravvicinate, che forse non hanno consentito al Pd di consolidarsi e portare a compimento il processo costitutivo. Il rifiuto ostinato di crearsi intorno una "cintura" di partiti minori con i quali sarebbe stato possibile condividere il programma e l'azione di governo, come i socialisti. E, infine, alcuni giovanilistici errori nella formazione delle liste, che pure hanno pesato, e come. Tutto questo, comunque, appartiene al passato. Ritorna l'interrogativo iniziale: e adesso, che fare? Al Partito democratico non resta che continuare per la strada imboccata. La sollecitazione a riprendere il dialogo con la sinistra radicale - che pure già si sente in giro - creerebbe solo, se ascoltata, le condizioni per una nuova sconfitta. E su posizioni di sicuro più arretrate. Quella di un Pd a vocazione maggioritaria era nata - lo sottolineava Salvati nel suo articolo - come una scommessa per il domani piuttosto che per l'immediato. E tale deve essere intesa. Se il costituendo governo Berlusconi dovesse avere successo - come tutti, da italiani, dobbiamo sperare - al Pd non resterebbe che il ruolo di un'opposizione costruttiva e una lunga traversata nel deserto, come è accaduto ad altre forze politiche di sinistra in Europa; e di rappresentare la naturale riserva della Repubblica, di cui ogni paese democratico ha bisogno almeno nella stessa misura in cui ha bisogno di una solida maggioranza. In caso contrario - e nessuno di noi se lo augura, nell'interesse dell'Italia - spetterebbe al Partito democratico subentrare nella guida del paese; e potrebbe farlo solo se nel frattempo si sarà attrezzato - come a suo tempo, con Tony Blair e Gordon Brown, fecero i laburisti inglesi - per guidare un paese moderno. |